Nel dicembre 2015, il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Venezia, disponeva il rinvio a giudizio per otto degli imputati del procedimento avente ad oggetto la realizzazione del Mose di Venezia, la barriera idraulica che dovrà salvare la città dalle maree.
Tra questi, Altero Matteoli, senatore di Forza Itala ed ex ministro dell’ambiente dal 2001 al 2006 e delle infrastrutture dal 2008 al 2011, Giorgio Orsoni, ex sindaco Pd di Venezia, Lia Sartori, ex parlamentare nelle file di Forza Italia, Maria Giovanni Piva, ex Presidente del Tribunale delle acque pubbliche di Venezia, nonché gli imprenditori Erasmo Cinque, Nicola Falconi e Danilo Turato e, infine, l’avvocato Corrado Crialese.
Come tutti sanno e come gli esperti ci ripetono oramai da tempo immemore, le bellezze straordinarie di una città come Venezia sono destinate a scomparire, divorate da un’onda marina che senza alcuno scrupolo farà sì che tutto ciò che l’uomo ha costruito negli anni giacerà sui fondali del mare, ricordandoci quale sia la scala di priorità del nostro pianeta.
Ciò non significa che ci si arrenderà senza lottare. La straordinarietà della laguna di Venezia dovrà essere difesa sino all’ultimo dall’innalzamento delle acque del pianeta, con ogni mezzo che si porrà come necessario.
È in questo contesto che nasce il Modulo Sperimentale Elettromeccanico, conosciuto come Mose, un progetto ideato interamente in Italia che prevede la costruzione di una serie di dighe di ultima generazione, pronte ad essere innalzate nei periodi di alta marea e a restare definitivamente alzate in caso di ulteriori cambiamenti nella portata di acque del pianeta.
L’idea risale agli anni sessanta, ma ci volle molto perché potesse anche solo iniziare a prendere forma.
Seguono infatti molti anni in cui vennero presentati progetti insoddisfacenti, che di volta in volta venivano bocciati dal Ministro dei lavori pubblici perché carenti dei requisiti necessari.
Agli inizi degli anni 80 veniva fondato il Consorzio Venezia Nuova, il quale riuniva diverse aziende italiane operanti nel campo delle costruzioni; pochi anni dopo nasceva il Mose, sperimentato per la prima volta nel 1989. Per l’approvazione definitiva è però necessario attendere il 2003, anno di inizio effettivo dei lavori.
Fino al 2016 sono stati spesi circa 5 miliardi di euro per la realizzazione di quest’opera, che è ancora all’80% del suo completamento, somma ben superiore a quello che era il budget iniziale.
Ma come si può pensare che in una tale opera pubblica tutto sia stato gestito nella legalità e trasparenza? Il Mose era un boccone troppo appetitoso per molti, da politici a magistrati, da ministri a imprenditori.
Non a caso emergeva un giro di corruzione, millantato credito, appalti truccati, fatture false e tangenti.
Un giro di soldi da miliardi di euro, che mieteva molte vittime e portava a numerose condanne, pur essendo molti dei processi ancora in corso.
Indagini della Guardia di Finanza: schema fraudolento
L’attività investigativa della Guardia di Finanza aveva origine nel 2009, quando si incominciavano ad effettuare dei controlli sulle varie società collegate al Consorzio Venezia Nuova, nato proprio al fine di consentire la realizzazione del Mose.
È in quest’occasione che veniva scoperto l’enorme schema fraudolento finalizzato a portare somme ingenti di denaro all’estero, avente come protagonisti Piergiorgio Baita, amministratore delegato di Mantovani Costruzioni, Niccolò Buson, suo socio in affari, Claudia Minutillo, segretaria personale dell’ex Governatore Galan e Ambrogio Colombelli.
Si tratta soltanto di alcuni dei nomi che sarebbero poi emersi dal proseguo delle indagini. Di lì a breve venivano indagati anche l’allora sindaco di Venezia Giorgio Orsini e l’ex presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan.
Mediante una serie di false fatturazioni, secondo la Guardia di Finanza, si erano riusciti a creare venticinque milioni di fondi neri e un ammanco nelle casse del comune per oltre sessanta milioni di euro. In questo modo, si aveva la possibilità di reinvestire parte delle somme nel pagamento di tangenti agli amministratori coinvolti nell’aggiudicazione degli appalti, quasi nella loro totalità truccati.
A tutto ciò le forze dell’ordine univano anche le indagini volte a comprendere se si fossero commessi reati ambientali. Fin dal suo inizio, infatti, il Mose veniva preso di mira da molte associazioni ambientalistiche nate a difesa dell’habitat lagunare, preoccupate per il delicato equilibrio idrogeologico della laguna, che a loro dire sarà definitivamente compromesso dalla realizzazione di una serie di piloni di cemento, da utilizzare come supporto alla struttura, che richiederanno un livellamento del fondale marino.
Venivano nominati tre diversi commissari che avevano il compito di monitorare i lavori e la regolarità delle carte, anche se, va detto, trattandosi di opera completamente sommersa, il lavoro era tutt’altro che agevole.
Tra gli indagati finivano ovviamente anche il presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati e i suoi collaboratori, ivi compreso Roberto Pravatà, ex vicedirettore generale del Consorzio, il quale teneva un diario successivamente sequestrato in cui erano riportate tutte le somme pagate a titolo di tangenti a politici e amministratori vari.
Secondo quanto riferito da Mazzacurati, nel 2009 il Consorzio ebbe la necessità di trovare un nuovo referente politico, sino ad allora rappresentato dal senatore Ugo Martina, con incarichi al ministero dei trasporti, poi deceduto.
È così che entrava in scena Marco Milanese, deputato e stretto collaboratore dell’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti, il quale avrebbe assicurato la concessione di finanziamenti richiesti di volta in volta con positivo parere del ministero dell’economia, in cambio della somma di 500 mila euro.
Il Consorzio inoltre pagò numerosi viaggi in Scozia, Romania e sul Danubio al ragioniere dello Stato Andrea Monorchio, in cambio di un importante contributo affinchè fossero inseriti nelle finanziarie le risorse necessarie a proseguire i lavori del Mose.
Il giro si allargava inoltre al re delle maglie Giuseppe Stefanel, nonché al sindaco di Verona Flavio Tosi, che secondo Mazzacurati avrebbe beneficiato dei soldi del Consorzio per finanziare la propria campagna elettorale.
Insomma, l’intera classe dirigente dello Stato e dell’imprenditoria italiana pareva essere coinvolta nei giri loschi legati al Mose e del resto, in un paese come il nostro, non poteva che essere così in un progetto da 5,4 miliardi di euro.
L’arresto per i fondi in nero
Nella prima tranche dell’inchiesta, il gruppo di pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia, procedevano all’arresto il 28 febbraio 2013 della ex segretaria di Galan, di Giorgio Baita e Nicolò Boson, accusati di aver distratto fondi relativi al Mose in una serie di fondi neri all’estero, utilizzati poi il pagamento di tangenti e per il finanziamento di campagne elettorali.
Successivamente tutti gli altri arresti delle persone coinvolte in quest’enorme tritacarne.
Tra i reati contestati quello di corruzione per atti contrari ai propri doveri d’ufficio, millantato credito, false fatturazioni e finanziamento illecito ai partiti.
Dopo la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura, molti degli imputati decidevano di patteggiare immediatamente.
L’ex presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan patteggiava una pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione con una confisca di 2 milioni e 600 mila euro;
l’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante patteggiava 4 anni di carcere e una confisca di 500 mila euro;
l’ex presidente del Mav Patrizio Cuccioletta la pena di 2 anni di relcusione e 700 mila euro di multa;
l’ex assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso 2 anni e sei mesi di reclusione e una confisca da 2 milioni di euro.
Per l’ex magistrato della Corte dei Conti Vittorio Giuseppone, accusato di corruzione, interveniva la prescrizione.
Tutti gli altri, tra cui anche l’ex sindaco Orsini e il presidente del Consorzio Mazzzacurati, per i quali non si voleva o non si poteva eseguire un patteggiameno, venivano rinviati a giudizio nel dicembre 2015 dal Gup di Venezia, con prima udienza fissata per l’aprile 2016.
Per tre imputati il giudice pronunciava sentenza a seguito della scelta del rito abbreviato, condannando a tre anni di reclusione Lino Brentan, ex amministratore delegato dell’Autostrada Venezia-Padova, e assolvendo il funzionario della Regione Veneto Giovanni Artico perché il fatto non sussiste e l’imprenditore Giancarlo Ruscitti perché il fatto non costituisce reato.
È indubbio che tra i tanti reati contestati alle decine di persone coinvolte in tale gigantesca macchina, uno dei più gravi sia rappresentato dal delitto di cui all’art. 319 c.p., ossia quello di corruzione per il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, che contempla una pena da quattro a otto anni di reclusione.
Va poi ricordato che nel caso in cui vi siano una serie di reati commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso, come ad esempio nel caso di fatturazioni false e di successivo pagamento di tangenti con i fondi neri così creati, si attua l’istituto della continuazione previsto e disciplinato dall’art. 81 c.p., che prevede in questi casi l’applicazione della pena prevista per il reato più grave, che può essere aumentata dal giudice fino al triplo.
Con ogni probabilità la maggior parte dei soggetti coinvolti non vedrà aprirsi le porte del carcere.
È vero, anche coloro che hanno patteggiato la pena non sono riusciti a contenerla entro i due anni di reclusione, limite massimo per la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel casellario giudiziale, ma è assai improbabile che scontino la pena in un istituto penitenziario. Vi saranno infatti istituti come la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali cui accedere, liberandosi in fretta di questo fastidio.
Ciò che invece sarebbe molto più utile è la confisca dei beni che rappresentano il profitto o il prezzo del reato. Chi compie tali tipologie di delitti, incurante della cosa pubblica e delle sorti del patrimonio comune, lo fa esclusivamente per soldi e sarà dunque molto più preoccupato dall’idea di perdere il profitto, piuttosto che da qualche mese passato nelle confortevoli mura domestiche.
E poi, pensando a chi ha patteggiato la restituzione di centinaia di migliaia di euro, viene da pensare malignamente a quanti deve averne occultati.
Un vaso di pandora di cui non si vede il fondo.