Ai fini dell’integrazione del reato di istigazione alla corruzione, è sufficiente la semplice offerta o promessa, purchè caratterizzata da un’adeguata serietà ed in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, in modo tale che sorga il pericolo che lo stesso accetti l’offerta o la promessa.
Non è pertanto necessario che l’offerta abbia una giustificazione, né che sia specificata l’utilità promessa, né quantificata la somma di denaro, essendo sufficiente la prospettazione da parte del soggetto agente dello scambio illecito.
Capita spesso che in un paese in cui l’indice di percezione della corruzione è molto alto anche un semplice cittadino creda di poter trasformarsi in corruttore dell’ultimo minuto, con la convinzione che un’offerta di denaro o di altri vantaggi sia il modo migliore e più veloce per risolvere ogni tipo di problema.
È semplice. Tutti sono in vendita. Si tratta soltanto di stabilire il prezzo e sperare di poterselo permettere.
Tuttavia, non sempre i pubblici ufficiali sono lì per essere comprati o sono pronti ad imporre il proprio tariffario ai poveri cittadini onesti, vittime di un sistema illegale tanto odioso.
Certo, accade anche questo; accade che persone oneste siano costrette a piegarsi alla volontà di chi ha più potere, solo perché rappresenta l’autorità, la pubblica amministrazione, ma è necessario imparare a distinguere le pecore dai lupi poiché non sempre la realtà è così come appare.
Una delle categorie dei pubblici ufficiali che più risente di una cattiva nomina, non sempre infondata, è senz’altro quella degli appartenenti alla Guardia di Finanza, che, per il peculiare lavoro che quotidianamente svolgono, maggiormente sono esposti al fenomeno corruttivo, sia nel caso in cui esso si concretizzi che nel caso in cui si tratti di un mero tentativo da parte del cittadino, del commerciante o più in generale del contribuente che persegue lo scopo di evitare un verbale di accertamento.
Chiunque sia titolare di una società o di un esercizio commerciale o di una partita iva sa bene quale timore possano incutere i finanzieri, pronti a spulciare qualunque documento sino a scovare ciò che non è in regola, ciò che non è stato fatto come si doveva, pagamenti effettuati in misura minore o addirittura omessi.
A volte gli errori contabili non sono neppure volontari. Ma dura lex, sed lex. L’errore fatto in buona fede non sarà sufficiente ad evitare la sanzione.
Viceversa vi sono volte in cui si è perfettamente consapevoli dei propri scheletri nell’armadio e si cerca in maniera maldestra e un po’ goffa di tentare in extremis di gettare la polvere sotto il tappeto.
È probabilmente questo che ha tentato di fare l’amministratore unico di una società con sede nel Tarantino, il quale, dopo essere stato più volte sottoposto a verifica fiscale, una volta resosi conto di quanto sarebbe emerso, ha tentato vanamente di offrire ai due sottufficiali della Guardia di Finanza che si stavano occupando degli accertamenti, dei buoni benzina del valore complessivo di 4.000 euro.
L’intento dell’amministratore era senz’altro quello di convincere i pubblici ufficiali a compiere atti contrari ai loro doveri d’ufficio, attestando il falso nel verbale di accertamento, in modo tale da evitare la conseguente applicazione delle dovute sanzioni alla società.
Si trattava però di un tentativo dall’esito infausto, che oltre a non condurre al risultato sperato, costava all’amministratore l’inizio di un processo penale a suo carico per il reato di istigazione alla corruzione, assistito da Avvocati Penalisti.
Condanna per istigazione alla corruzione
L’uomo veniva processato dapprima dinanzi al Tribunale di Taranto, dove gli veniva inflitta una condanna per il delitto di istigazione alla corruzione.
Tale pronuncia veniva poi confermata, con sentenza emessa il 25 settembre 2014, dalla Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto, che confermava integralmente la pronuncia di primo grado.
Essa valorizzava le seguenti circostanze:
1) l’esistenza di una verifica fiscale in corso da tempo, quasi conclusa e potenzialmente foriera di pregiudizio;
2) l’astratta possibilità dei sottufficiali, nella loro qualità di responsabili dell’istruttoria, di condizionare quello che sarebbe stato lo sviluppo successivo della verifica attraverso il compimento di attività contrarie ai propri doveri;
3) la pretestuosa ricerca di un contatto con uno dei due militari, sfruttando la momentanea assenza dell’altro e l’offerta di un importante benefit economico, quali i buoni benzina per un importo di 4000 euro;
4) il tentativo di sdrammatizzare, una volta resosi conto della gravità del comportamento, attraverso la plateale estensione dell’offerta anche all’altro militare.
Di qui la condanna.
Avverso detta pronuncia l’imputato proponeva ricorso per cassazione, depositato dal difensore penalista di fiducia, con il quale ci si opponeva fermamente alle conclusioni rassegnate dal giudice di prime cure.
Erronea applicazione dell’art 322 cp
Il ricorso difensivo volto a censurare la sentenza della Corte d’appello veniva fondato su un unico motivo di censura.
L’imputato lamentava l’erronea applicazione dell’art. 322 c.p., ossia della norma disciplinante il reato di istigazione alla corruzione, per il quale l’amministratore unico pugliese era stato condannato nei due giudizi di merito.
La superiore disposizione prevede infatti che chiunque offra o prometta denaro o altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiaccia, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita per la corruzione c.d. impropria, cioè da uno a cinque anni di reclusione, ridotta di un terzo.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio a omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a compiere un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, sempre qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita per la corruzione c.d. propria, ossia da quattro a otto anni di reclusione, ridotta anche in questo caso di un terzo.
Insomma, nel caso di istigazione che non vada a buon fine si applicano le stesse pene previste per le ipotesi di corruzione consumata, ma queste sono ridotte.
Nel caso di specie, la difesa rilevava come la Corte di merito non avesse adeguatamente vagliato i motivi di appello già proposti dall’imputato e, inoltre, lamentava l’insufficienza dell’istruttoria dibattimentale, che non aveva consentito di accertare quale fosse l’oggetto della presunta induzione e, segnatamente, se l’imputato aspirasse al compimento di un atto conforme o contrario ai doveri di ufficio, vista anche la differenza di pena che ne deriva.
Il difensore di fiducia ribadiva con forza che l’amministratore non aveva mai esplicitato alcuna offerta nei confronti dei due sottufficiali e, di conseguenza, mancava l’idoneità potenziale dell’offerta stessa a conseguire lo scopo perseguito dall’autore.
Si rilevava altresì la circostanza che i due finanzieri avevano operato sotto il costante controllo dei superiori gerarchici e le attività stavano volgendo al termine, per cui non vi sarebbe stato modo di concretizzare alcun tentativo di corruzione.
In sintesi, la linea difensiva si fondava sull’inidoneità dell’azione a raggiungere l’obiettivo corruttivo e pertanto era diretta a far affermare l’insussistenza del fatto, attesa l’erronea qualificazione giuridica della realtà degli eventi.
La sentenza della Corte di Cassazione: rigetto
I giudici di legittimità rigettavano il ricorso dell’imputato.
Essi osservavano in via preliminare che il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, secondo l’opzione interpretativa prevalente, si configura ogniqualvolta vi sia l’asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri, ancorchè non predefiniti, né specificamente individuabili, ovvero mediante l’omissione o il ritardo di atti dovuti.
In tal caso, ove la condotta arrivasse a compimento, si configurerebbe il più grave reato di corruzione propria e non quello di corruzione c.d. impropria, che al contrario prevede la dazione o promessa di benefici per il compimento di un atto conforme ai doveri d’ufficio.
Alla luce di tali rilievi, non risultava dunque manifestamente illogica la sussunzione nell’ambito dell’istigazione alla corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, della condotta dell’imputato che, va ricordato, si era reso responsabile dell’offerta di un bene di immediata utilizzabilità e di significativo valore economico a due marescialli della Guardia di Finanza, allorchè essi procedevano alla verifica fiscale nei confronti dell’agente.
Del resto, secondo la ricostruzione effettuata nel corso dell’istruttoria dibattimentale, l’offerta dell’amministratore era chiaramente diretta ad ottenere un comportamento contrario ai doveri dei pubblici ufficiali, ossia quello di occultare alcune irregolarità nella verifica così da non incorrere in sanzioni pecuniarie.
Veniva quindi considerato sussistente il reato di istigazione alla corruzione, a prescindere dall’inidoneità concreta dell’azione al raggiungimento dello scopo.
Il reato di istigazione alla corruzione è escluso soltanto se manchi la idoneità potenziale dell’offerta o della promessa a conseguire lo scopo perseguito dall’autore per l’evidente quanto assoluta impossibilità del pubblico ufficiale di tenere il comportamento illecito richiesto. Anche qui però c’è da segnalare giurisprudenza contraria.
Non è ciò che avveniva nel caso di specie, in cui soltanto il pronto rifiuto dei sottufficiali impediva la realizzazione del delitto di corruzione, essendo l’offerta perfettamente idonea allo scopo prefissato.
Accordo corruttivo
Il rapporto corruttore e corrotto è quasi riconducibile all’ambito negoziale, trattandosi di un vero e proprio accordo sinallagmatico relativo ad uno scambio di prestazioni: il privato procederà al pagamento tramite la dazione o la promessa di denaro o altra utilità e il pubblico ufficiale si adopererà per il compimento di un atto del suo ufficio o addirittura per il compimento di un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio.
In tale ambito dunque non è possibile scorgere un carnefice e una vittima, in quanto entrambi i soggetti coinvolti avranno il loro tornaconto dall’accordo concluso, proprio come in una trattativa privata.
È di tutta evidenza che in questo scenario ne risente soprattutto la pubblica amministrazione, il cui funzionamento e le cui risorse economiche saranno inevitabilmente pregiudicate da tali condotte, così come pure l’affidabilità e la percezione del buon funzionamento e della trasparenza che i cittadini ne avranno.
Differenze con la Concussione
Diverso è il caso in cui si concretizzi la fattispecie simile della concussione, in cui l’abuso viene compiuto dal pubblico ufficiale, che forte della sua posizione, costringe o induce il privato a dare o promettergli denaro o altra utilità.
La gravità di questo delitto è facilmente intuibile: i rami deviati della pubblica amministrazione inficiano il rapporto con i cittadini imponendosi con la forza e con l’abuso del proprio potere, finendo con il creare nei privati la triste consapevolezza di non potere neppure fare affari con lo Stato, che si trasforma nel primo nemico.
Cassazione penale, sezione VI, sentenza 09/02/2016, n. 6849