In caso di simulata accettazione da parte del pubblico ufficiale per ragioni di polizia giudiziaria, non può ritenersi ricorrere quell’accettazione effettiva necessaria ad integrare i reati bilaterali di corruzione per un atto d’ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, tuttavia nello stesso caso il privato deve rispondere del reato di istigazione alla corruzione, in quanto la consumazione di quest’ultimo delitto si verifica appena il corruttore ha fatto l’offerta o la promessa, da considerarsi non accolte in concreto per essere simulata l’accettazione.
Pertanto, ricorre l’ipotesi criminosa di cui all’art. 322 c.p. e non quella di cui agli articoli 318, 319 o 320 c.p., allorchè il pubblico ufficiale simuli l’accettazione di denaro o altra utilità ovvero della sua promessa con l’intenzione di denunciare il fatto e di assicurare alla giustizia l’istigatore alla corruzione.
Più volte si è sentito di trattamenti speciali all’interno degli istituiti penitenziari per quei detenuti che al contrario dovrebbero essere sottoposti ad un regime maggiormente afflittivo rispetto agli altri.
Di Don Raffale sono piene le carceri, specie in alcune aree territoriali in cui scontano la propria pena persone con un potere più grande di coloro che sono in libertà, tanto da travalicare lo stato di restrizione e trasformare un luogo di pena in un luogo di vacanza.
È questo quello che è successo al “Grand Hotel Ucciardone”, in cui i boss di Cosa Nostra padroneggiavano sulla struttura carceraria, mangiando aragoste e brindando con bicchieri di champagne.
Tutto in spregio al quell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che al contrario vorrebbe una maggior afflizione nello scontare la pena per quelle persone che si sono rese responsabili di delitti tanto brutali come quelli commessi in ambito mafioso.
Ma si sa, tutto si compra. Gli istituti carcerari sono gestiti dalla polizia penitenziaria e un agente, che guadagna un misero stipendio, ben potrà cedere alle lusinghe dei detenuti, uomini arricchiti dal malaffare che non hanno alcuna difficoltà a ben ricompensare coloro che si mostrino accondiscendenti rispetto alle richieste di favori, così da poter godere di tutte le comodità di un albergo, senza il minimo riguardo verso la funzione rieducativa che la pena dovrebbe avere.
Ci sono però delle mosche bianche, persone che ancora credono che non tutto possa essere messo a tacere dal denaro, che credono nel loro ruolo e non cedono alla corruzione dei soldi, contro tutti e tutto, mettendosi nella condizione di non essere comprese neppure dai propri parenti. Molti credono che la miglior cosa sia sempre farsi i fatti propri, abbassare la testa e far finta di niente.
Non la pensava così un giovane agente della polizia penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Trapani, il quale, avendo ricevuto delle costanti proposte da parte di alcuni detenuti nella sezione “Alta sicurezza”, ne aveva dato immediata comunicazione ai propri superiori gerarchici, consentendo di smascherare un episodio corruttivo che, per alcune similitudini, risulta essere molto simile agli scandali dell’Ucciardone.
Il tentativo di corruzione dell’agente penitenziario
Il 30 luglio 2008 l’agente riferiva infatti di essere stato contattato da uno dei detenuti, che aveva tentato di convincerlo ad assumere il ruolo di “spesino” presso la sezione Alta Sicurezza, posta al secondo piano del carcere di Trapani.
Il suo compito avrebbe dovuto essere quello di corriere, consentendo l’introduzione all’interno dell’istituto di generi alimentari vietati, per un compenso di 1000 euro. Il detenuto peraltro ci aveva tenuto a precisare come non sarebbe stato il primo ad assumere un simile ruolo, avendo già in passato altri agenti fatto la stessa cosa.
Il giovane ed encomiabile agente non aveva esitato a denunciare la situazione e da quel momento si era prestato ad assecondare le richieste del detenuto, al fine di smascherare l’intero sistema corruttivo.
Questo, in particolare, gli aveva fornito un elenco scritto di generi alimentari da fargli avere, tra cui cinque aragoste, una bottiglia di champagne e una di amaro Lucano, per la vigilia e per la giornata di Ferragosto, dietro il compenso di 1.500 euro, di cui 1.000 da destinarsi all’acquisto della merce.
L’agente simulava di essersi prestato al gioco, per poi denunciare l’accaduto all’autorità giudiziaria.
Giudizio immediato per corruzione
Il 18 giugno 2008 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani disponeva con decreto il giudizio immediato nei confronti dei detenuti che avevano effettuato le proposte, affinchè rispondessero del reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio.
L’avvocato penalista di uno degli imputati chiedeva l’applicazione della pena su richiesta delle parti e la sua posizione processuale veniva quindi separata dagli altri, così da consentire la definizione del procedimento con un patteggiamento, visto il consenso prestato dal pubblico ministero.
Fatto ciò, il Giudice dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva l’esame dei testimoni indicati nella lista ritualmente depositata dall’accusa, nonché l’esame degli imputati e acquisiva i decreti di intercettazione delle conversazioni e i decreti di intercettazione epistolare.
Veniva inoltre disposta la perizia di trascrizione delle intercettazioni e, all’esito dell’istruttoria e sentite le conclusioni delle parti, il Tribunale di Trapani concludeva per l’insussistenza del reato di corruzione e al contrario per l’esistenza del reato di istigazione alla corruzione, per il quale gli imputati venivano condannati.
Uno degli imputati veniva condannato ad anni due di reclusione, mentre l’altro ad anni uno e mesi quattro di reclusione, tenuto conto della concessione a quest’ultimo delle attenuanti generiche.
Entrambi erano condannati al pagamento delle spese del giudizio.
La differenza delle fattispecie 319 e l’istigazione alla corruzione
Secondo il capo di imputazione prospettato dall’accusa, gli imputati avrebbero dovuto rispondere per i reati di cui agli articoli 319 e 321 c.p.
Il primo disciplina il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, stabilendo che il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.
Il secondo al contempo quantifica la pena da applicarsi nei confronti del corruttore, disponendo che le pene previste in tutti i reati di corruzione si applicano, non soltanto al pubblico ufficiale corrotto, ma anche a colui che effettua la promessa o la dazione di denaro o altra utilità.
L’aver offerto del denaro per far sì che l’agente della polizia penitenziaria consentisse l’ingresso all’interno dell’istituto penitenziario di generi alimentari non consentiti e l’aver l’agente accettato il denaro e portato l’azione a compimento, seppur a scopo di denuncia, per la procura di Trapani doveva sussumersi comunque nella fattispecie della corruzione.
Diversamente la pensava però la difesa, che al contrario sottolineava la natura bilaterale del reato di corruzione.
Affinchè esso si consumi sarebbe infatti necessario che vi fosse la compartecipazione di due individui, corrotto e corruttore, i quali dovrebbero entrambi rendersi autori dei fatti descritti dalla norma.
Alla luce di ciò, osservava la difesa, non poteva dirsi ricorrente nel caso di specie il reato in questione, in quanto vi era la totale mancanza di bilateralità nella condotta.
È vero l’agente della polizia penitenziaria si era prestato a simulare la consumazione del reato, ma, proprio in quanto le sue azioni erano dettate da cause di servizio, difettava totalmente l’elemento soggettivo del reato, non avendo di certo l’agente la reale intenzione di farsi corrompere.
Per tali ragioni, la struttura del reato di corruzione non poteva dirsi in alcun modo configurata e, pertanto, veniva richiesta l’assoluzione.
L’accoglimento della tesi difensiva
Il Tribunale di Trapani accoglieva la tesi difensiva, richiamando all’uopo anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale la corruzione è un reato plurisoggettivo di natura bilaterale o a concorso necessario (Cass., Sez. VI, 04/05/2006, n. 33435, Battistella e altri).
La simulazione della corruzione art 319 cp
L’elemento caratterizzante l’illecito è la stipulazione tra il privato e il pubblico ufficiale di un pactum sceleris cha ha ad oggetto i doveri funzionali del secondo; l’elemento materiale è invece costituito dalle condotte convergenti e speculari del privato e del pubblico funzionario, le quali si integrano a vicenda, dando vita ad un unico delitto a compartecipazione necessaria, la cui configurazione è strettamente collegata alla sussistenza di entrambe le condotte, tra le quali vi è una connessione indissolubile, visto il perfetto sincronismo tra il dare e il ricevere, ovvero tra il promettere e l’accettare la promessa per l’una e per l’altra parte contraente.
Osservava il Tribunale come d’altra parte, sul piano logico, è concepibile una corruzione attiva in una determinata vicenda, in quanto si dimostri la sussistenza di quella passiva, che unitamente alla prima va a completare la fattispecie. In tale contesto, poiché il reato di corruzione costituisce un’ipotesi delittuosa a carattere necessariamente bilaterale, all’azione corruttrice del privato deve far riscontro un’effettiva adesione del pubblico ufficiale.
Pertanto, sulla scorta delle superiori argomentazioni, il privato che porti a compimento la corruzione del pubblico ufficiale, nell’ipotesi in cui l’adesione di quest’ultimo sia solamente simulata, non può configurare il delitto di cui all’art. 319 c.p., non ricorrendo quell’accettazione effettiva necessaria ad integrare tale fattispecie, ma configurerà il delitto di cui all’art. 322 c.p., ossia quello di istigazione alla corruzione.
Nel caso di specie risultava acclarato che l’agente di polizia penitenziaria non avesse mai accolto e accettato in termini effettivi e reali la promessa di denaro proveniente dai detenuti, quale controprestazione per l’introduzione all’interno del carcere di generi alimentari vietati; inoltre, l’agente non accettava in concreto il denaro che gli veniva consegnato in quanto, proprio al momento della dazione, intervenivano i militari che traevano in arresto il parente del detenuto, incaricato alla consegna, e veniva sequestrato il denaro.
Fatte le precedenti considerazione, il Tribunale di Trapani, non potendosi ritenere configurata la fattispecie criminosa della corruzione, condannava gli imputato per istigazione alla corruzione; ad uno di loro era inflitta la condanna di anni due di reclusione, mentre all’altro, al quale venivano concesse le attenuanti generiche, veniva inflitta la pena della reclusione ad anni uno e mesi quattro.
Il caso in esame, al di là delle roboanti considerazioni in materia di qualificazione giuridica che poco incidono sulla quantificazione della pena, spinge a riflettere per una circostanza: la persona del denunciante.
Che molte cose possano essere comprate è notizia ormai nota da tempo. Che quasi tutte possano essere ottenute, non solo con il denaro, ma anche con il potere e con il timore che incute un membro occupante posizioni di vertice in un’organizzazione criminale, è una certezza.
Eppure, in questo quadro così malinconico, un giovane agente, non inserito in certi contesti ed evidentemente non ancora rassegnato a certi meccanismi, ci ha insegnato che c’è ancora speranza, che è possibile fare il proprio dovere senza piegarsi di fronte alla vile attrattiva del denaro. Non c’è bisogno di mettersi in vendita pur di arrotondare lo stipendio, poiché forse la libertà morale ha un valore più alto di quella economica. Forse è più gratificante guardarsi allo specchio senza avere rimpianti ed essere sereni, piuttosto che avere il denaro per fare una vacanza in più.
È questione di scelte ed ognuno compie le proprie. Ma è l’incorruttibilità della giovinezza che ha qui giocato un ruolo determinante e che, purtroppo, le difficoltà della vita spesso finiscono per sostituire con la fredda e cinica concretezza, la quale conosce soltanto la solidità di una posizione economica e mai la spensieratezza di una libertà.
L’istigazione alla commissione di reati
Il delitto di istigazione alla corruzione non costituisce l’unico caso in cui il nostro ordinamento punisce la condotta di istigazione.
Ad esempio l’art. 414 c.p. prevede che chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione:
1) con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti;
2) con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a 206 euro, se trattasi di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni.
Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti si applica la pena prevista dal n. 1), applicata anche nell’ipotesi in cui si faccia pubblicamente apologia di uno o più delitti.
La superiore norma prevede quindi in generale l’inflizione di una pena per chi tenta di indurre altri a commettere un reato.
Tribunale di Trapani, sentenza 7 aprile 2009, n. 366.